Al ciel ch’è pura luce
Il Paradiso all’abbazia di San Donato
di Paolo Zoboli
Giovedì prossimo 27 giugno, alle ore 21, giungeremo al termine del nostro itinierario attraverso la Commedia e attraverso Sesto Calende: con Dante, siamo scesi lungo i cerchi dell’Inferno e siamo saliti lungo le cornici del Purgatorio; a Sesto, dal bosco della Preja Buia siamo scesi ai prati poco sottostanti che circondano l’oratorio di San Vincenzo. Ora, grazie alla generosa attenzione del prevosto don Luigi Ferè, per la terza cantica ci accoglierà la splendida abbazia di San Donato. Dio – afferma Dante dell’Empireo, meta del suo viaggio – «in tutte parti impera e quivi regge» (cioè in tutto l’universo è imperatore, ma nell’Empireo è re): e al termine del nostro viaggio i versi del Paradiso, nel quale sempre più la poesia s’innalza alla preghiera, risuoneranno nella casa stessa del Signore
La terza cantica è, notoriamente, la più ardua e ‘difficile’ – ma anche la più alta. Peraltro, a chi non avesse familiarità con essa e neppure potesse contare su memorie scolastiche pur pallide e lontane, chi scrive e Marco Giani consigliano di abbandonarsi semplicemente alla musica straordinaria delle terzine di Dante, e alle meravigliose immagini che esse evocano: «La poesia richiede una lunga iniziazione, come qualsiasi sport», scriveva Federico García Lorca, «ma c’è nella vera poesia un profumo, un accento, un tratto luminoso, che tutte le creature possono percepire».
Anche fidando in questo, e considerando inoltre il luogo della lettura, non abbiamo esitato a procedere a una scelta ulteriormente ‘difficile’, tutta proiettata verso gli ultimi canti, quelli del Cielo delle stelle fisse, del Primo mobile e dell’Empireo. Dopo i versi proemiali (anche questa volta leggeremo la cantica, pur antologicamente, dal primo verso all’ultimo) irrinunciabile ci è parsa tuttavia la profezia dell’esilio da parte dell’avo Cacciaguida (canto XVII), che chiarisce le allusioni di Farinata (che abbiamo ascoltato nell’Inferno) e di Oderisi da Gubbio (che abbiamo ascoltato nel Purgatorio). Il brano successivo, tratto dal canto XXIII, ci porta invece al trionfo di Cristo e di Maria: nel Cielo delle stelle fisse Dante vede scendere dall’alto tutti i beati, come tante luci illuminate da una luce incomparabilmente più fulgida, quella del Cristo, che si alza poi verso l’Empireo perché il poeta possa contemplare la luce più splendente di tutte, quella della Vergine, girando intorno alla quale l’arcangelo Gabriele canta un canto dolcissimo.
Giunto al cielo successivo, il Primo mobile o Cristallino (siamo al canto XXVIII), Dante contempla un Punto, infinitamente piccolo e infinitamente luminoso: il Punto è Dio stesso, e intorno ad esso girano, tanto più veloci quanto più ad esso sono prossimi, nove cerchi infuocati, le gerarchie angeliche dai Serafini agli Angeli che Beatrice gli illustra. Fuoriuscendo dal Primo mobile, e dunque dall’universo fisico, il poeta e la sua guida giungono «al ciel ch’è pura luce», all’Empireo, dove Dante ha la visione di un fiume di luce che, mentre la sua vista si fa via via più penetrante, prende la forma di una immensa Rosa celeste nella quale hanno sede i beati (canto XXX).
Ed eccoci arrivati alla meta del viaggio, al canto XXXIII che, raggiungendo un’altezza poetica vertiginosa, corona il poema con la visione stessa, pur largamente indicibile, di Dio. La preghiera alla Vergine di san Bernardo, che apre il canto, invoca per il pellegrino oltremondano la possibilità di affondare lo sguardo nella luce abissale del Creatore: in essa Dante vede – e cerca di esprimere, lottando disperatamente con i limiti della sua memoria e del suo linguaggio umano – l’unità dell’universo in Dio, il mistero della Trinità e il mistero dell’Incarnazione, ovvero della coesistenza in Cristo della natura divina e della natura umana. Dante è giunto al limite delle sue possibilità conoscitive e poetiche: solo un intervento della Grazia divina gli permette di compiere il suo desiderio, davvero ormai oltre i limiti della memoria e della parola, e di perdersi infine nella visione dell’«amor che move il sole e l’altre stelle».
Alla musica di Dante – affidata (speriamo non troppo indegnamente) alla voce di chi qui scrive – si alternerà e si affiancherà fra le navate e le volte dell’antica abbazia la musica Händel, di Charpentier, di Debussy, di Vivaldi e di Bach, affidata alla grande maestrìa di Christian Tarabbia, all’organo, e di Luca Magni, al flauto.
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